Giardino d'inverno

Con uno dei padri fondatori dell'Institutional Critique i quadri non esistono più e sono sostituiti dalle parole, che diventano installazioni occupando lo spazio, e poiazione sviluppando diversi modi di sentire l'istituzione museale...
A partire dall'ambigua questione di come si possa rappresentare la realtà - e quale sia poi questa realtà - fino a parlare del museo oggi: i suoi problemi e i suoi compiti. Una riflessione con Gloria Moure, curatrice della mostra di Marcel Broodthaers alMamBo di Bologna.

 

Monument an X, 1867. Mattoni, malta, cazzuola, 75x19x35 cm. Collezione privata, Brussels




La caméra qui regarde, 1966. Vetro, carta, legno, pittura, treppiedi, 14x35x106 cm. Caldic Collectie, Wassenaar
 

Massimo Marchetti: Dalla storiografia, Broodthaers è considerato soprattutto uno dei quattro autori (assieme ad Hans Haacke, Daniel Buren e Michael Asher) che hanno dato identità a quel filone di indagine definito poi come Critica istituzionale. Si tratta quindi di un lavoro che ha riflettuto su temi complessi come la natura dell’arte e il suo rapporto con il sistema culturale, e per questo di non facile sintesi. Quali linee hai seguito nel curare questa retrospettiva?

Gloria Moure: Come dice il titolo L’Espace de l’ècriture, lo “spazio della scrittura” è il senso generale della mostra.
Marcel Broodthaers era un poeta che aveva cominciato a scrivere negli anni Quaranta, e quando nel ’64 abbandonò la scrittura per l’arte visiva, non compì mai una completa metamorfosi, ma anzi da quel momento, anziché staccarsi dall’idea di poesia, iniziò a metterla in forma. Questa è la linea generale di tutta la mostra.

Lavorando sugli interessanti scritti di Broodthaers, ho individuato altre due linee aperte dal suo lavoro e su queste ho costruito la mostra. Innanzitutto il rapporto tra l’oggetto e l’immagine, a partire da Magritte, che era il suo artista di riferimento e che con Ceci n’est pas une pipe mise in discussione l’idea di rappresentazione.
Broodthaers porta questa analisi all’estremo prendendo gli oggetti della vita quotidiana, presentandoli come oggetti in se stessi ma anche come immagini fotografiche, facendo così riferimento all’ambiguità della questione di come noi oggi possiamo rappresentare la realtà, e quale sia poi questa realtà.
Un’altra figura di riferimento è Mallarmé, perché in lui trova un’ulteriore riflessione sul linguaggio che gli permette di comprenderne lo spazio formale.
Ma Broodthaers vuole affermare la sua identità storica e geografica: lui innanzitutto è belga, è un artista che ha una cultura propria, con un profilo chiarissimo.
Ha la volontà di dare un senso all’azione artistica in un mondo che tende all’omologazione, facendo capire che si deve partire delle proprie tradizioni per poter entrare in relazione con gli altri. Questo è un fatto che trovo molto importante perché è una caratteristica chiara agli artisti degli anni Sessanta, una generazione in cui tutti si fanno le stesse domande ma dove ognuno parla dalla sua piattaforma tradizionale, dall’arte povera italiana a quella concettuale americana che ha un'impostazione senza storia, quasi partendo da zero.
Questa differenza è proprio ciò che arricchisce il dialogo tra gli artisti di questa generazione.

La terza e ultima linea è legata all’idea di museo “fittizio” – non voglio dire immaginario perché Broodthaers lo formalizza, non è solo nella sua mente – con il Musée d’Art Moderne che inizia la propria storia a casa sua nel ‘68, con l’esposizione delle casse di imballo di quadri su cui proietta le diapositive di dipinti e disegni del XVIII e XIX secolo, fino al lavoro per l’ultima mostra, la Salle blanche, dove ricostruisce una camera classica come poteva essere in un palazzo dell’Ottocento, in cui i quadri non esistono più ma sono sostituiti dalle parole.
Questo percorso lo si ritrova in tutta la mostra perché Broodthaers ha sviluppato diversi modi di sentire l’istituzione museale, i suoi problemi ma anche i suoi compiti, tra cui quello della diffusione che per lui era molto importante.
In questo lasso di tempo, dal ‘68 fino al ’72, ha infatti portato avanti anche un grandissimo lavoro sulle lettere ufficiali, sui certificati di autenticità e su tutte quelle dichiarazioni che in quel periodo si facevano contro o a favore della politica museale.
Nella mostra del MAMbo in una vetrina è esposta solo una piccola parte di questa ricerca, ma si tratta di una sezione molto importante. Ci dimostra come non si debba pensare al museo solo come un posto concreto, un’architettura, ma come qualcosa che funziona anche in quanto sistema di distribuzione (e ricordiamoci che in quel periodo diversi artisti lavoravano con la Mail art).

Un altro aspetto che considero essenziale per comprendere la grandezza di Broodthaers è come lui cominci a riflettere non solo sulla logica del museo, ma anche su quella delle proprie mostre in relazione al loro spazio, che utilizza veramente come spazio della scrittura. È in questa parte del lavoro, sviluppata dopo il ‘74 fino a quando muore nel ’75, che penso abbia definitivamente sistemato e messo a frutto sia la sua cultura su Magritte e Mallarmé che ciò che aveva fatto nel Musée d’Art Moderne. Un periodo che è stato aperto dalla mostra al Palais des Beaux Arts, dove installò per la prima volta il Jardin d’Hiver e che è stato finalizzato con quella dell’Angelus di Daumier, mettendo in gioco una riflessione politica rappresentata proprio dalla figura di Daumier.

M.M.: La mostra di Bologna si apre proprio con il Jardin d’Hiver, che accompagna i visitatori per tutto il tempo diffondendo una musica che definirei struggente. Ci puoi fornire una chiave di lettura per avvicinarci a questo lavoro?

G.M.: L’idea di museo di Broodthaers era legata al concetto di décor, termine che utilizza molto nei suoi scritti. Ad esempio, nei testi degli anni Cinquanta, quando descriveva le mostre di Pop art viste a Bruxelles, parlava proprio di décor dell’atto di decorare.
E questa parola viene appunto collegata anche all’idea di museo: basti pensare alla Salle Blanche o alle casse da imballaggio del ’68, che sono situazioni dall’impostazione piuttosto teatrale.
Dopo che Broodthaers concluse l’esperienza del suo Musée d’Art Moderne nel ‘72 a Documenta, nel ‘74 tenne una mostra al Palais des Beaux Arts di Bruxelles e per la prima volta creò il Jardin d’Hiver, che è un décor per uno spazio dove si crea un’utopia.
Il Jardin d’Hiver, dice nei suoi scritti, è un’oasi, un momento di ristoro dentro una situazione museale che definisce a chiare lettere come un “deserto culturale”. E aggiungo che oggi questo lavoro può ancora funzionare.

M.M.: Vorrei collegarmi a questa citazione del “deserto culturale”. In che misura secondo te è ancora veramente attuale la riflessione di Broodthaers sul museo? Siamo ormai abituati a vedere l’istituzione museale tendere a trasformarsi in multinazionale all’interno della quale la parte espositiva può diventare meno rilevante di tutto ciò che le ruota attorno – e a questo proposito pensiamo alla Section Pubblicité del Musée d’Art Moderne.
Questo progetto come può ancora incidere nell’elaborazione della consapevolezza, da parte del pubblico, dell’esistenza di un linguaggio museale?


G.M.: Broodthaers ha posto un problema che è stato anche generazionale, solo che lui lo ha formalizzato con la parola “museo” e lo ha fatto viaggiare in diversi contesti.
La questione dell’infiltrazione dell’artista nell’istituzione ha avuto luogo anche qui in Italia con l’Arte Povera, che ha contribuito a produrre spazi diversi dai musei con le gallerie e le Kunsthalle, strutture che non hanno collezione e che sono state fondamentali per tutta una generazione che metteva in discussione l’istituzione museale.
In quel momento il museo era strettamente legato a un’idea di protezione del patrimonio, considerato come una sfera unica e conchiusa.

Gli artisti invece avevano capito che il museo poteva essere una cosa viva, un posto dove sviluppare un dibattito e dove avere un rapporto con la storia anziché esserne tagliati fuori. Questa riflessione è molto nitida in Broodthaers quando proietta le diapositive di quadri antichi su un’idea di museo fittizio come possono essere le casse d’imballo, istituendo un rapporto tra storia e contemporaneità.
Curiosamente in questi quarant’anni il museo si è evoluto in una dimensione allucinante, diventando un posto spettacolare dove si ha più interesse verso la giovinezza di un artista che verso ciò che può dimostrare il peso di una ricerca o la relazione con la tradizione.
Per prima cosa i musei sono aumentati di numero, poi sono diventati un fatto eminentemente politico, e infine hanno contribuito a produrre una situazione caotica perché tra musei e gallerie non si vedono grandi differenze.
A volte poi le fiere fanno le stesse cose delle biennali, il che dimostra come ci troviamo in un contesto di grande appiattimento.

E così eccoci di nuovo al punto di partenza di Broodthaers. C’è stata sì una trasformazione del museo, ma si è sviluppata fuori dal suo gioco, e ancora non abbiamo fatto un’autentica riflessione su cosa esso sia, su cosa esso debba fare per poter proteggere non solo il patrimonio storico, ma anche quello più recente, e su quali operazioni debba compiere come istituzione sociale, in quanto parte rilevante del bagaglio culturale della società, una società a cui la sua azione deve in una qualche modo ritornare.
E rimane dunque aperta la questione, che è innanzitutto culturale e non politica, di come nell’istituzione si possa riflettere il modo di vedere il nostro mondo.

M.M.: Abbiamo saputo in conferenza stampa che il MoMA ha aperto il nuovo allestimento del piano dedicato all’arte contemporanea proprio con una grande sala dedicata al lavoro di Broodthaers. Quali problemi può porre la musealizzazione di una riflessione sul museo?

G.M.: Diciamo che questo è molto interessante, perché Broodthaers non ha mai avuto rilievo in America a causa di una visione molto chiusa dell’arte europea. Quindi è estremamente positivo che questo nuovo percorso sia aperto proprio da lui.
Bisogna anche dire che in realtà si tratta di una congiuntura favorevole, data dall’acquisizione della grande collezione di un fantastico personaggio, Herman Daled, che ha cominciato a raccogliere opere negli anni Sessanta.
Daled era un radiologo belga, molto amico di Broodthaers, con una storia affascinante. I suoi inizi di collezionista sono legati alla sua tesi di dottorato: il suo relatore era un fisico premio Nobel che l’aveva invitato a capire innanzitutto ciò che era il contesto culturale in cui viveva, dal cinema, alla letteratura, alle arti visive. E così Daled ha iniziato ad andare alle mostre. Raccontò che in una di queste non capì assolutamente nulla ma vide per la prima volta le Moules e altri lavori di Broodthaers e ne rimase tanto affascinato da comprarli.
Il giorno dopo ricevette una telefonata in cui gli si chiedevano informazioni sull’acquisto. Chi lo chiamava era proprio Broodthaers, che voleva conoscerlo.
Lui ora ha compiuto ottant’anni e ha deciso di vendere la collezione al MoMA pensando che fosse il miglior modo per collocare un artista storico europeo in una posizione centrale in America. A parte questo fatto, dovuto a un'occasione, io penso che questo lavoro all’interno di un museo possa anche far capire che le cose possono cambiare se dietro c’è qualcuno di intelligente che gioca bene le sue carte
 
Massimo Marchetti è critico e curatore, lavora a Bologna. Membro darth dal 2007, è collaboratore di UnDo.Net, Radio Città del Capo e dello spazio non profit Casabianca di Zola Predosa (Bo). Dal 2009 è direttore del Musée de l'OHM.