Remo Salvadori
Nel punto immobile del mondo
rotante
Musei San Domenico - chiesa di
San Giacomo, Forlì
19 giugno - 18 settembre 2016
a cura di Cristina Ambrosini e
Davide Ferri
Nel punto immobile del
mondo rotante stanno le forme nitide di Remo Salvadori nella loro apparente
indifferenza dagli eventi che si manifestano in superficie. La personale
allestita nell’ex chiesa di San Giacomo di Forlì distende con precisione il
lessico fondamentale che l’artista toscano ha elaborato e sintetizzato fin dai
primi anni Ottanta per sviluppare un discorso – come suggerisce il testo dei
curatori – di stampo neoplatonico e geometrizzante. Il risultato finale,
purtroppo, convince solo a metà. Il punto di forza è senz’altro costituito dal
fatto che l’opera di Salvadori trova in questa architettura, restaurata di
recente, l’occasione per far scoccare una scintilla con il simbolismo cristiano:
il cerchio, il quadrato e il cilindro, che da buon erede della tradizione
rinascimentale sono tra le forme più ricorrenti della sua produzione,
enfatizzano in questo contesto la loro dimensione “sacra”, opportunamente posta
a confronto con la mostra (ora conclusa) dedicata all’influenza dell’arte di
Piero della Francesca in età moderna nelle sale dei Chiostri di San Domenico.
Ecco dunque un esempio di questa influenza, ma forse è
troppo banale definirla in questo modo: l’influenza si può anche subire
inconsapevolmente, mentre il lavoro di Salvadori si pone come lucida
interpretazione di quei principi senza la puntigliosità della citazione. La
grande treccia metallica di Continuo
infinito presente sembra fissare a terra la navata della chiesa come un
canapo. Il segno circolare, simbolo di perfezione, persistenza e stabilità, robusto
lavorìo del tempo che alimenta se stesso, sembra assorbire in questa situazione
dei significati cristologici quali possono essere evocati da una corona attorcigliata,
certo senza spine ma che suggerisce un peso insostenibile. Il solido d’acqua di
Lente liquida, dove si dà concretezza
a un sottile equilibrio visivo tra contenitore e contenuto, si manifesta allo
sguardo come un fonte battesimale che, attraverso la sua trasparenza e
l’istante di stupore che produce, ci indica il miracolo di una purezza assoluta.
Posto nell’abside, il Verticale, un
foglio di rame alto poco più di un uomo, piegato a tubo e trattenuto da un
anello che è un altro piccolo Continuo
infinito presente, rivela il proprio potenziale una volta che, alla fine
del percorso, ci si venga a trovare esattamente di fronte. In quel momento, nella
parte concava sembra sciogliersi una sottile vibrazione verticale, sfuggente e
lievemente perturbante, in cui riconosciamo il riflesso rossastro della nostra
presenza. Possiamo così osservarci a figura intera, presenza davanti a
presenza, cinti alla vita da un disagevole cordone, e muovendoci assistiamo
alla metamorfosi del nostro doppio, alla sua consunzione, verrebbe da dire alla
sua “sfigurazione”: Ecce Homo? Pare
evidente che siamo noi, intesi come singoli individui e non come ricaduta
terrena dell’Uomo ideale, il canone del discorso dell’artista.
Se la mostra si fermasse qui avremmo l’impressione che la
razionalità che ispira l’opera di Salvadori non si confini in una astratta
metafisica, ma che, con il contributo della nostra presenza, si inserisca nella
concretezza del mondo. Invece a questi tre interventi ne sono stati aggiunti
altri che sbilanciano il discorso verso le vette dell’Idea e che, non a caso,
si notano solo in seconda battuta attraversando la navata. L’aggiunta di altre parole
nello spazio allenta la tensione e fa stingere tutto l’insieme in un’impressione
di anemia. L’origami metallico sospeso al soffitto della navata si inscrive sì
nel grande cerchio a terra, ma l’accostamento sa di accademico didascalismo,
così come la schematica collezione di altri sette pur affascinanti oggetti di
questo tipo a terra poco più avanti – Alfabeto
– assieme a un grande tappeto triangolare fatto di carte bianche e di un filo
rosso che lo regolarizza, sembrano la dimostrazione di un teorema che riguarda
territori molto mentali e però poco attuali, oltre al fatto che la serie e il
triangolo dal punto di vista formale non danno l’impressione di coagularsi
compiutamente. Colore, invece,
descrive una mutazione attraverso una sequenza di cerchi cromatici, ma questo
acquerello su carta, che nelle sue dimensioni rimanda ancora una volta a quelle
umane, in questo contesto sembra semplicemente esornativo, come se l’intento
fosse soprattutto quello di aggiungere un tocco vivace al tono brunito della
mostra. L’elemento più discutibile è quello che vorrebbe essere per paradosso
il più dialogante, ossia la scultura Concavo
convesso su cui è adagiata una risma di poster offerti al visitatore, poster
che si rivelano essere una locandina della mostra a tutto svantaggio
dell’identità di opera a pieno titolo. Nella didascalia i poster non sono
specificati come materiali, per cui non ci è chiaro se l’autore la consideri
nell’insieme un’opera. In ogni caso, quando si propone al pubblico un manifesto
da portare via non si può non tener conto della declinazione lirica che di
questo segno ha fatto Felix Gonzales-Torres negli anni Ottanta. Se l’oggetto in
sé, così come il nostro gesto, non sono leggibili in tutti i loro dettagli come
opera, non si potrà poi evitare la delusione dello slittamento nel souvenir.