Adriana Torregrossa - Commonplace



Commonplace - Ruskin Gallery & Gallery 9, Cambridge (UK)

PLACE: Relinking, Relating, Relaying
An exhibition by artists from Italy, Slovenia, Bosnia & Herzegovina and Cambridge
25 January – 17 February 2018
a cura di Robert Good e Rebecca Ilett

Per parlare del mio lavoro debbo fare una premessa: l'attenzione che ho spesso dedicato a culture lontane dalla mia non è convenzionale ma è motivata da un percorso che mi ha portato effettivamente a vivere in quei luoghi per lunghi periodi.
C'è dunque un'idea di “spostamento” all'origine del mio lavoro, che non va intesa nell'accezione del semplice viaggio. I frequenti spostamenti mi hanno costretta a confrontarmi con realtà complesse, spesso a me sconosciute, nelle quali ho dovuto necessariamente immergermi.
Sin dagli anni Novanta, quando nel dibattito pubblico l'attenzione verso quell'area non era ancora così acuta, mi sono rivolta al mondo arabo, dove ho vissuto e lavorato per circa tre anni. È in Marocco, infatti, che ho iniziato a sviluppare alcune peculiarità del mio lavoro che ancora oggi mi legano profondamente a quella cultura e che approfondirò poi in Medio Oriente, in Egitto e in Etiopia. In questi anni ho rafforzato e precisato un gusto per la decorazione antica e per il segno – come quello indelebile lasciato dalla zibibba sulla fronte dei credenti che quotidianamente poggiano la fronte sul tappeto per pregare – verso cui ero già predisposta per le mie origini siciliane.
Nel frattempo, però, il mondo è profondamente cambiato. E la curiosità, purtroppo, si è trasformata spesso in paura nelle società occidentali. Quello che per me all'inizio della mia carriera artistica era ricerca, ora è diventata dibattito politico e sociologico. Ma, indipendentemente da tutto ciò, la mia ricerca prosegue nella direzione originaria che mi ha condotto fin qui.

Il segno che ho proposto per la mostra “Place” vuole suscitare l'attenzione su una figura che, anche se può risultare non immediatamente identificabile, dovrebbe essere familiare a tutti perché vista sui libri di scuola, sui giornali o in televisione. Per qualcuno, forse, questa figura tenue e delicata, ma allo stesso tempo vasta e invadente evocherà innanzitutto l'origine della civiltà, mentre per altri, invece, sembrerà un'allusione alle guerre degli ultimi anni: in ogni caso questo segno ci coinvolge nel cuore della Storia.
Anche il concetto di “invadenza”, inteso in senso più intellettuale che fisico, è stato al centro di altri miei lavori, come nella serie di ricami No, Non li sopporto, Nausea, Senza presentata subito dopo il mio ritorno dall'Egitto dopo oltre un anno di permanenza. Anche in questo caso si tratta di un lavoro basato sul segno, un segno che diventa paradossalmente espressione di incomunicabilità con un mondo che nel corso del tempo, anziché chiarirsi, mi è apparso sempre più impenetrabile. Ho preferito che questo segno non venisse materialmente confezionato da me, ma da professionisti locali in modo da far emergere, senza ipocrisie, come da un rapporto conflittuale tra chi ospita e chi viene ospitato si possa sviluppare un nodo inestricabile e soffocante.
Data la natura autobiografica della mia ricerca, naturalmente in diversi lavori si può rintracciare anche è un filo sottile che mi riporta alla dimensione più intima delle mie origini: la Sicilia, la mia famiglia e il nome che porto. In un'opera del 2008, E così ora lo sai..., il segno è dato dalla fitta grafia presente in un vecchio quaderno di appunti scritto da mio padre – e da lui stesso letto durante il vernissage – dove le memorie di suo padre creano il filo conduttore della nostra famiglia, una traccia indelebile che passa da una generazione a un'altra, con nomi che cambiano, origini che si fanno incerte, cognomi imposti e genitori mai ritrovati.

www.adrianatorregrossa.com

Nel punto immobile del mondo rotante - Remo Salvadori


Remo Salvadori

Nel punto immobile del mondo rotante



Musei San Domenico - chiesa di San Giacomo, Forlì

19 giugno - 18 settembre 2016

a cura di Cristina Ambrosini e Davide Ferri





Nel punto immobile del mondo rotante stanno le forme nitide di Remo Salvadori nella loro apparente indifferenza dagli eventi che si manifestano in superficie. La personale allestita nell’ex chiesa di San Giacomo di Forlì distende con precisione il lessico fondamentale che l’artista toscano ha elaborato e sintetizzato fin dai primi anni Ottanta per sviluppare un discorso – come suggerisce il testo dei curatori – di stampo neoplatonico e geometrizzante. Il risultato finale, purtroppo, convince solo a metà. Il punto di forza è senz’altro costituito dal fatto che l’opera di Salvadori trova in questa architettura, restaurata di recente, l’occasione per far scoccare una scintilla con il simbolismo cristiano: il cerchio, il quadrato e il cilindro, che da buon erede della tradizione rinascimentale sono tra le forme più ricorrenti della sua produzione, enfatizzano in questo contesto la loro dimensione “sacra”, opportunamente posta a confronto con la mostra (ora conclusa) dedicata all’influenza dell’arte di Piero della Francesca in età moderna nelle sale dei Chiostri di San Domenico.

Ecco dunque un esempio di questa influenza, ma forse è troppo banale definirla in questo modo: l’influenza si può anche subire inconsapevolmente, mentre il lavoro di Salvadori si pone come lucida interpretazione di quei principi senza la puntigliosità della citazione. La grande treccia metallica di Continuo infinito presente sembra fissare a terra la navata della chiesa come un canapo. Il segno circolare, simbolo di perfezione, persistenza e stabilità, robusto lavorìo del tempo che alimenta se stesso, sembra assorbire in questa situazione dei significati cristologici quali possono essere evocati da una corona attorcigliata, certo senza spine ma che suggerisce un peso insostenibile. Il solido d’acqua di Lente liquida, dove si dà concretezza a un sottile equilibrio visivo tra contenitore e contenuto, si manifesta allo sguardo come un fonte battesimale che, attraverso la sua trasparenza e l’istante di stupore che produce, ci indica il miracolo di una purezza assoluta. Posto nell’abside, il Verticale, un foglio di rame alto poco più di un uomo, piegato a tubo e trattenuto da un anello che è un altro piccolo Continuo infinito presente, rivela il proprio potenziale una volta che, alla fine del percorso, ci si venga a trovare esattamente di fronte. In quel momento, nella parte concava sembra sciogliersi una sottile vibrazione verticale, sfuggente e lievemente perturbante, in cui riconosciamo il riflesso rossastro della nostra presenza. Possiamo così osservarci a figura intera, presenza davanti a presenza, cinti alla vita da un disagevole cordone, e muovendoci assistiamo alla metamorfosi del nostro doppio, alla sua consunzione, verrebbe da dire alla sua “sfigurazione”: Ecce Homo? Pare evidente che siamo noi, intesi come singoli individui e non come ricaduta terrena dell’Uomo ideale, il canone del discorso dell’artista.

Se la mostra si fermasse qui avremmo l’impressione che la razionalità che ispira l’opera di Salvadori non si confini in una astratta metafisica, ma che, con il contributo della nostra presenza, si inserisca nella concretezza del mondo. Invece a questi tre interventi ne sono stati aggiunti altri che sbilanciano il discorso verso le vette dell’Idea e che, non a caso, si notano solo in seconda battuta attraversando la navata. L’aggiunta di altre parole nello spazio allenta la tensione e fa stingere tutto l’insieme in un’impressione di anemia. L’origami metallico sospeso al soffitto della navata si inscrive sì nel grande cerchio a terra, ma l’accostamento sa di accademico didascalismo, così come la schematica collezione di altri sette pur affascinanti oggetti di questo tipo a terra poco più avanti – Alfabeto – assieme a un grande tappeto triangolare fatto di carte bianche e di un filo rosso che lo regolarizza, sembrano la dimostrazione di un teorema che riguarda territori molto mentali e però poco attuali, oltre al fatto che la serie e il triangolo dal punto di vista formale non danno l’impressione di coagularsi compiutamente. Colore, invece, descrive una mutazione attraverso una sequenza di cerchi cromatici, ma questo acquerello su carta, che nelle sue dimensioni rimanda ancora una volta a quelle umane, in questo contesto sembra semplicemente esornativo, come se l’intento fosse soprattutto quello di aggiungere un tocco vivace al tono brunito della mostra. L’elemento più discutibile è quello che vorrebbe essere per paradosso il più dialogante, ossia la scultura Concavo convesso su cui è adagiata una risma di poster offerti al visitatore, poster che si rivelano essere una locandina della mostra a tutto svantaggio dell’identità di opera a pieno titolo. Nella didascalia i poster non sono specificati come materiali, per cui non ci è chiaro se l’autore la consideri nell’insieme un’opera. In ogni caso, quando si propone al pubblico un manifesto da portare via non si può non tener conto della declinazione lirica che di questo segno ha fatto Felix Gonzales-Torres negli anni Ottanta. Se l’oggetto in sé, così come il nostro gesto, non sono leggibili in tutti i loro dettagli come opera, non si potrà poi evitare la delusione dello slittamento nel souvenir.


Massimo Marchetti

Donne Inquiete. Geografia e Identità 01


Percorsi urbani di arte femminile

Stazione Ferroviaria di Trieste, fino al 23 Maggio 2013
 

 

In una esperienza di confronto un gruppo di artiste, provenienti da svariate regioni italiane, si

incontrano in una città come Trieste per costruire un ponte operativo dell'arte che collega le loro città native con il mondo. Non c'è luogo più congeniale di una stazione ferroviaria dove iniziare un percorso espositivo dal titolo impegnativo “ Donne Inquiete. Geografia e Identità “. Donne di generazione, origine e formazione diverse, donne in movimento, donne che arrivano, donne che partono e che nell'intervallo da uno spostamento all'altro ci lasciano un ricordo codificato in arte. La dimensione di questi ricordi è quella di raccontare la loro identità geografica attraverso le forme, le tecniche e i contenuti che caratterizzano la produzione artistica contemporanea. Il filo conduttore non è la loro appartenenza ad un sistema dell'arte predominante, ma il tentativo di connettere delle pratiche differenti, di costruire dei linguaggi comunicanti, di sperimentare nuovi orizzonti di cambiamento culturale e politico, di trasformare attraverso atti creativi, fare riconoscere l’arte attraverso la tradizione per arrivare all'innovazione.

 

Alla Stazione Ferroviaria di Trieste dove una parte del progetto rimarrà allestito fino al 23 maggio, il coinvolgimento, a misura diversa, di tutte le parti tra il gestore della Stazione, Cento Stazioni, e i negozianti, i committenti, gli enti pubblici, i turisti e i cittadini, il parroco della Cappella e le artiste, implica un mettersi in discussione in un contesto specifico per riflettere su di esso, per ricordare il dimenticato come spesso l'origine, le radici della gente. Le artiste hanno saputo ascoltare i luoghi difficili di passaggio e anche le persone passanti, proponendo dei lavori molto diversi ma altrettanto accattivanti su piano concettuale e formale.

 

Adriana Torregrossa, artista siciliana che vive e lavora a Trieste, occupa una sequenza di vetrine vuote con un lavoro radicato nelle sue terre catanesi e nel passato dei suoi genitori. Il suo progetto  veste il colore dominante della segnaletica della Stazione, un blu marittimo che funge da sfondo ad una scritta bianca : sogna ( immagine in allegato) Qui si tratta di una pratica di intervento orientata a cogliere una dimensione più articolata che coinvolge anche la vita sociale, la qualità della vita, il vivere collettivo. Sotto il tetto di vetro nella parte ristrutturata della stazione, la piccola piazzetta è spesso popolata da persone bisognose che magari recentemente sono diventate vittime di un impoverimento brusco e inaspettato. Le identità plurali che definiscono sempre di più la società contemporanea, s'intrecciano di continuo e attivano una riflessione su chi abita la città e chi è di passaggio. Il sogno di Adriana Torregrossa resta li, percepibile, leggibile da tutte le prospettive della stazione affinché  qualcuno lo accolga, lo coltivi, contribuisca a fare un passo in avanti verso una piccolissima realizzazione personale. Il paradigma del sogno si ricollega anche alla vita dei genitori dell'artista, al loro grande amore documentato  nel libro“ Diario di due Cuori “ che contiene le lettere d'amore dal 1949 al 1953.

 

Marisa Tumicelli, poetessa di Verona, proviene dalla generazione delle maghe della parola come la sua amica del cuore Alda Merini. Il suo relazionarsi con l'arte avviene tramite un capitolo della storia che indissolubilmente è legata alla città di Verona : la storia di Giulietta Capuleti.

 

 

 

 

Così, la vetrina di una copisteria, situata all'inizio del tratto ristrutturato della Stazione, diventa palcoscenico per lo scenario “ Le Lacrime di Giulietta”, realizzate con materiali di forte valore simbolico, tra cui numerose gocce di vetro antico di Murano, e tulle bianche. L'installazione è composta di filiere di gocce di vetro che nascondono nel loro apparente splendore l'offrirsi di Giulietta all'amore senza riserve e la sua disperazione più straziante che finisce con un gesto tragico decisivo. Quanta sofferenza e morte provochino gli odi e le divisioni, nella Verona del Medioevo come nelle città del presente, ci può solo raccontare una poetessa artista della sensibilità di Marisa Tumicelli. E' una scommessa azzardata di voler scoprire quanti passanti si siano fermati per riflettere sul senso che abita nelle cose. L'arte contemporanea non viene solo presentata in una vetrina ma diventa anche soggetto dell'educazione : chiunque passi davanti alle vetrine, può anche non vedere, rifiutare l'insegnamento, negare l'esercizio di senso. Giulietta che piange rimpiange anche ciò.

 

Di fronte a Giulietta, separata da un involucro di negozi che danno sulla piazzetta coperta di vetro, risiede la “ Natività “ di Anna Maria Di Terlizzi, scultrice di Bari, nella Cappella quasi nascosta della Stazione. Un lavoro monumentale in chiave contemporanea, tra dipinto e scultura, allestito sulla  parete di sinistra, sorprende il visitatore sulla parete vicino all'ingresso della piccola chiesa. Chi varca la soglia, approfitta dell'occasione di appartarsi in uno spazio spirituale che esige silenzio e rispetto, lontano dai rumori della quotidianità in Stazione. Sono numerose le persone multietniche che cercano questa oasi consolante per affidarsi alla Madonna con il bambino, grazie all'iniziativa del parroco che con coraggio difende la coesistenza tra espressioni artistiche del passato e del presente. Solo a seconda vista l'opera rivela i codici della contemporaneità che rendono un tema ricorrente da Giotto a Caravaggio, cosi attuale : l'accento su un volto scuro coperto da un velo, il bambino scolpito e montato sulla tela dipinta. Anche qui, Anna Maria di Terlizzi va oltre la raffigurazione di una Natività. In modo consueto, l'artista riunisce e fa rivivere diversi momenti  storici e culturali, dalla Prestoria al Medioevo e alla contemporaneità. Ricordiamo in questo contesto  un'altra installazione di Anna Maria Di Terlizzi che ha dato il nome al progetto complessivo allestito a Trieste, dodici “Donne Inquiete” scolpite, che, nel loro insieme, rappresentano l'immaginario della donna in cammino, della donna che si mette in viaggio. Geograficamente. Psicologicamente. Intellettualmente. Un viaggio il cui percorso è aperto e che concede perdersi, voltare le spalle al passato e abbandonare le proprie sicurezze. Come donna e artista contemporanea, Anna Maria Di Terlizzi è comunque rimasta fedele alle suggestioni provenienti dal fecondo suolo pugliese che si intersecano con respiri mediterranei, aneliti africani e memorie orientali. 

 

La farmacia adiacente alla Cappella, con le sue vetrine abbondanti di suggerimenti per il benessere, ma anche per la bellezza, ha dato spazio a Leda Martari, pittrice veneta, i cui dipinti ravvivano il desiderio frequente dell'uomo di cercare un raggio di luce nell'armonia della natura, nei giardini, nel paesaggio. Poiché il termine “ farmacia”  ha assunto, nel tempo, anche altre valenze diversificate di apertura nel settore, la presenza del prisma cromatico acceso di Leda Martari in vetrina è un fattore consolidante per chi magari, per un momento, tra un viaggio e un altro, non si sente in forma, lo distrae dal dolore, lo porta via in un'atmosfera più allegra verso nuovi stimoli ricostituenti. Le rive del Garda si trasformano in “ bagliori dorati e riflessi argentei fra azzurri di cielo e acque “, come scrive la poetessa Marisa Tumicelli,  l'Arena di Verona invece offre “ una lettura di pietre, l'ossigeno consumato dei secoli".  

 

 

 

 

La sua pittura spesso serve da veicolo alle memorie collettive, associate a geografie comuni, a dei luoghi e ad altre immagini uscite dal quotidiano e dai suoi ricordi. Inabissando il tempo e lo spazio, crea delle sinfonie cromatiche che toccano immediatamente il nostro immaginario collettivo ed il sistema sensoriale di percezione.  Così i due dipinti “ Colori dentro suoni “ che nascono dall'interpretazione di una sinfonia di violino del Vivaldi, convertendo la composizione musicale in pittura, note che diventano petali, sempre più intensi sulla via graduale della dissoluzione formale.

 

Nell'arte pubblica, affermano in molti, la committenza viene dal basso, il che rovescia i rapporti di potere. Il progetto di vita che la pubblicità in generale propone è il più seduttivo possibile. Di conseguenza, l'identità personale è sempre più legata la consumo. Non si tratta più di ricezione critica da parte del fruitore, di un atto pedagogico di conoscenza, ma di utilità nel processo di auto-conferma.

 

Antonia Trevisan, artista di Vicenza, non ha temuto di proporre le sue opere al Bricco Café, il primo bar che il viaggiatore raggiunge dopo il suo arrivo in stazione. Le grandi vetrate che racchiudono un ampio spazio di ristoro, aperto al grande pubblico di passaggio giornaliero, non hanno mai accolto delle opere d'arte. Potrebbe diventare una nuova domanda sociale di rinunciare ai programmi televisivi di basso livello e di audio massacrante nei luoghi di massa e di sostituire i monitor ogni tanto con opere d'arte che, di primo impatto, tacciono. Parlano col tempo, come le visioni raffinate di Antonia Trevisan che s'impongono allo sguardo con tenacia per rimanere ancora dopo le immagini digitali dell'effimero, cappuccino e café, accostate alla sua arte. Interprete eccelsa della sua regione nativa,  l'artista riporta nelle sue incisioni dei misteriosi paesaggi lagunari che si fondono con cieli pallidi, che alludono alla patria dei sogni che comunque esiste al di là dell'orizzonte. Nella sua evoluzione artistica e umana Antonia Trevisan ha raggiunto un traguardo importante che viene impreziosito dalle sue stesse parole :” dipingere è insieme ritrovamento e sottrazione; è stendere il segno di questo passaggio, di questi contrasti, per ricordarmi ogni attimo quanto sono meravigliosamente viva.”

 

E' solo dando fiducia a questo nuovo approccio di guardare l'arte che può iniziare un nuovo modo di frequentazione di luoghi pubblici e di confronto con il complesso intreccio dei rapporti che vi si articolano. Una stazione ferroviaria viva e attiva è anche un luogo delle contraddizioni che richiede maggiore responsabilità di chi ci transita e di chi ne ha bisogno. Esporre in un luogo in cui domina la velocità, la precarietà, la flessibilità e la varietà, s'intende come lezione particolare dello sguardo affinché stimoli la nostra mente.

 
                                                                                                                                  beth vermeer, 2013

Giardino d'inverno

Con uno dei padri fondatori dell'Institutional Critique i quadri non esistono più e sono sostituiti dalle parole, che diventano installazioni occupando lo spazio, e poiazione sviluppando diversi modi di sentire l'istituzione museale...
A partire dall'ambigua questione di come si possa rappresentare la realtà - e quale sia poi questa realtà - fino a parlare del museo oggi: i suoi problemi e i suoi compiti. Una riflessione con Gloria Moure, curatrice della mostra di Marcel Broodthaers alMamBo di Bologna.

 

Monument an X, 1867. Mattoni, malta, cazzuola, 75x19x35 cm. Collezione privata, Brussels




La caméra qui regarde, 1966. Vetro, carta, legno, pittura, treppiedi, 14x35x106 cm. Caldic Collectie, Wassenaar
 

Massimo Marchetti: Dalla storiografia, Broodthaers è considerato soprattutto uno dei quattro autori (assieme ad Hans Haacke, Daniel Buren e Michael Asher) che hanno dato identità a quel filone di indagine definito poi come Critica istituzionale. Si tratta quindi di un lavoro che ha riflettuto su temi complessi come la natura dell’arte e il suo rapporto con il sistema culturale, e per questo di non facile sintesi. Quali linee hai seguito nel curare questa retrospettiva?

Gloria Moure: Come dice il titolo L’Espace de l’ècriture, lo “spazio della scrittura” è il senso generale della mostra.
Marcel Broodthaers era un poeta che aveva cominciato a scrivere negli anni Quaranta, e quando nel ’64 abbandonò la scrittura per l’arte visiva, non compì mai una completa metamorfosi, ma anzi da quel momento, anziché staccarsi dall’idea di poesia, iniziò a metterla in forma. Questa è la linea generale di tutta la mostra.

Lavorando sugli interessanti scritti di Broodthaers, ho individuato altre due linee aperte dal suo lavoro e su queste ho costruito la mostra. Innanzitutto il rapporto tra l’oggetto e l’immagine, a partire da Magritte, che era il suo artista di riferimento e che con Ceci n’est pas une pipe mise in discussione l’idea di rappresentazione.
Broodthaers porta questa analisi all’estremo prendendo gli oggetti della vita quotidiana, presentandoli come oggetti in se stessi ma anche come immagini fotografiche, facendo così riferimento all’ambiguità della questione di come noi oggi possiamo rappresentare la realtà, e quale sia poi questa realtà.
Un’altra figura di riferimento è Mallarmé, perché in lui trova un’ulteriore riflessione sul linguaggio che gli permette di comprenderne lo spazio formale.
Ma Broodthaers vuole affermare la sua identità storica e geografica: lui innanzitutto è belga, è un artista che ha una cultura propria, con un profilo chiarissimo.
Ha la volontà di dare un senso all’azione artistica in un mondo che tende all’omologazione, facendo capire che si deve partire delle proprie tradizioni per poter entrare in relazione con gli altri. Questo è un fatto che trovo molto importante perché è una caratteristica chiara agli artisti degli anni Sessanta, una generazione in cui tutti si fanno le stesse domande ma dove ognuno parla dalla sua piattaforma tradizionale, dall’arte povera italiana a quella concettuale americana che ha un'impostazione senza storia, quasi partendo da zero.
Questa differenza è proprio ciò che arricchisce il dialogo tra gli artisti di questa generazione.

La terza e ultima linea è legata all’idea di museo “fittizio” – non voglio dire immaginario perché Broodthaers lo formalizza, non è solo nella sua mente – con il Musée d’Art Moderne che inizia la propria storia a casa sua nel ‘68, con l’esposizione delle casse di imballo di quadri su cui proietta le diapositive di dipinti e disegni del XVIII e XIX secolo, fino al lavoro per l’ultima mostra, la Salle blanche, dove ricostruisce una camera classica come poteva essere in un palazzo dell’Ottocento, in cui i quadri non esistono più ma sono sostituiti dalle parole.
Questo percorso lo si ritrova in tutta la mostra perché Broodthaers ha sviluppato diversi modi di sentire l’istituzione museale, i suoi problemi ma anche i suoi compiti, tra cui quello della diffusione che per lui era molto importante.
In questo lasso di tempo, dal ‘68 fino al ’72, ha infatti portato avanti anche un grandissimo lavoro sulle lettere ufficiali, sui certificati di autenticità e su tutte quelle dichiarazioni che in quel periodo si facevano contro o a favore della politica museale.
Nella mostra del MAMbo in una vetrina è esposta solo una piccola parte di questa ricerca, ma si tratta di una sezione molto importante. Ci dimostra come non si debba pensare al museo solo come un posto concreto, un’architettura, ma come qualcosa che funziona anche in quanto sistema di distribuzione (e ricordiamoci che in quel periodo diversi artisti lavoravano con la Mail art).

Un altro aspetto che considero essenziale per comprendere la grandezza di Broodthaers è come lui cominci a riflettere non solo sulla logica del museo, ma anche su quella delle proprie mostre in relazione al loro spazio, che utilizza veramente come spazio della scrittura. È in questa parte del lavoro, sviluppata dopo il ‘74 fino a quando muore nel ’75, che penso abbia definitivamente sistemato e messo a frutto sia la sua cultura su Magritte e Mallarmé che ciò che aveva fatto nel Musée d’Art Moderne. Un periodo che è stato aperto dalla mostra al Palais des Beaux Arts, dove installò per la prima volta il Jardin d’Hiver e che è stato finalizzato con quella dell’Angelus di Daumier, mettendo in gioco una riflessione politica rappresentata proprio dalla figura di Daumier.

M.M.: La mostra di Bologna si apre proprio con il Jardin d’Hiver, che accompagna i visitatori per tutto il tempo diffondendo una musica che definirei struggente. Ci puoi fornire una chiave di lettura per avvicinarci a questo lavoro?

G.M.: L’idea di museo di Broodthaers era legata al concetto di décor, termine che utilizza molto nei suoi scritti. Ad esempio, nei testi degli anni Cinquanta, quando descriveva le mostre di Pop art viste a Bruxelles, parlava proprio di décor dell’atto di decorare.
E questa parola viene appunto collegata anche all’idea di museo: basti pensare alla Salle Blanche o alle casse da imballaggio del ’68, che sono situazioni dall’impostazione piuttosto teatrale.
Dopo che Broodthaers concluse l’esperienza del suo Musée d’Art Moderne nel ‘72 a Documenta, nel ‘74 tenne una mostra al Palais des Beaux Arts di Bruxelles e per la prima volta creò il Jardin d’Hiver, che è un décor per uno spazio dove si crea un’utopia.
Il Jardin d’Hiver, dice nei suoi scritti, è un’oasi, un momento di ristoro dentro una situazione museale che definisce a chiare lettere come un “deserto culturale”. E aggiungo che oggi questo lavoro può ancora funzionare.

M.M.: Vorrei collegarmi a questa citazione del “deserto culturale”. In che misura secondo te è ancora veramente attuale la riflessione di Broodthaers sul museo? Siamo ormai abituati a vedere l’istituzione museale tendere a trasformarsi in multinazionale all’interno della quale la parte espositiva può diventare meno rilevante di tutto ciò che le ruota attorno – e a questo proposito pensiamo alla Section Pubblicité del Musée d’Art Moderne.
Questo progetto come può ancora incidere nell’elaborazione della consapevolezza, da parte del pubblico, dell’esistenza di un linguaggio museale?


G.M.: Broodthaers ha posto un problema che è stato anche generazionale, solo che lui lo ha formalizzato con la parola “museo” e lo ha fatto viaggiare in diversi contesti.
La questione dell’infiltrazione dell’artista nell’istituzione ha avuto luogo anche qui in Italia con l’Arte Povera, che ha contribuito a produrre spazi diversi dai musei con le gallerie e le Kunsthalle, strutture che non hanno collezione e che sono state fondamentali per tutta una generazione che metteva in discussione l’istituzione museale.
In quel momento il museo era strettamente legato a un’idea di protezione del patrimonio, considerato come una sfera unica e conchiusa.

Gli artisti invece avevano capito che il museo poteva essere una cosa viva, un posto dove sviluppare un dibattito e dove avere un rapporto con la storia anziché esserne tagliati fuori. Questa riflessione è molto nitida in Broodthaers quando proietta le diapositive di quadri antichi su un’idea di museo fittizio come possono essere le casse d’imballo, istituendo un rapporto tra storia e contemporaneità.
Curiosamente in questi quarant’anni il museo si è evoluto in una dimensione allucinante, diventando un posto spettacolare dove si ha più interesse verso la giovinezza di un artista che verso ciò che può dimostrare il peso di una ricerca o la relazione con la tradizione.
Per prima cosa i musei sono aumentati di numero, poi sono diventati un fatto eminentemente politico, e infine hanno contribuito a produrre una situazione caotica perché tra musei e gallerie non si vedono grandi differenze.
A volte poi le fiere fanno le stesse cose delle biennali, il che dimostra come ci troviamo in un contesto di grande appiattimento.

E così eccoci di nuovo al punto di partenza di Broodthaers. C’è stata sì una trasformazione del museo, ma si è sviluppata fuori dal suo gioco, e ancora non abbiamo fatto un’autentica riflessione su cosa esso sia, su cosa esso debba fare per poter proteggere non solo il patrimonio storico, ma anche quello più recente, e su quali operazioni debba compiere come istituzione sociale, in quanto parte rilevante del bagaglio culturale della società, una società a cui la sua azione deve in una qualche modo ritornare.
E rimane dunque aperta la questione, che è innanzitutto culturale e non politica, di come nell’istituzione si possa riflettere il modo di vedere il nostro mondo.

M.M.: Abbiamo saputo in conferenza stampa che il MoMA ha aperto il nuovo allestimento del piano dedicato all’arte contemporanea proprio con una grande sala dedicata al lavoro di Broodthaers. Quali problemi può porre la musealizzazione di una riflessione sul museo?

G.M.: Diciamo che questo è molto interessante, perché Broodthaers non ha mai avuto rilievo in America a causa di una visione molto chiusa dell’arte europea. Quindi è estremamente positivo che questo nuovo percorso sia aperto proprio da lui.
Bisogna anche dire che in realtà si tratta di una congiuntura favorevole, data dall’acquisizione della grande collezione di un fantastico personaggio, Herman Daled, che ha cominciato a raccogliere opere negli anni Sessanta.
Daled era un radiologo belga, molto amico di Broodthaers, con una storia affascinante. I suoi inizi di collezionista sono legati alla sua tesi di dottorato: il suo relatore era un fisico premio Nobel che l’aveva invitato a capire innanzitutto ciò che era il contesto culturale in cui viveva, dal cinema, alla letteratura, alle arti visive. E così Daled ha iniziato ad andare alle mostre. Raccontò che in una di queste non capì assolutamente nulla ma vide per la prima volta le Moules e altri lavori di Broodthaers e ne rimase tanto affascinato da comprarli.
Il giorno dopo ricevette una telefonata in cui gli si chiedevano informazioni sull’acquisto. Chi lo chiamava era proprio Broodthaers, che voleva conoscerlo.
Lui ora ha compiuto ottant’anni e ha deciso di vendere la collezione al MoMA pensando che fosse il miglior modo per collocare un artista storico europeo in una posizione centrale in America. A parte questo fatto, dovuto a un'occasione, io penso che questo lavoro all’interno di un museo possa anche far capire che le cose possono cambiare se dietro c’è qualcuno di intelligente che gioca bene le sue carte
 
Massimo Marchetti è critico e curatore, lavora a Bologna. Membro darth dal 2007, è collaboratore di UnDo.Net, Radio Città del Capo e dello spazio non profit Casabianca di Zola Predosa (Bo). Dal 2009 è direttore del Musée de l'OHM.

GLOCAL SOVEREGNITY


Enrico Morsiani e Massimo Marchetti - a cura di Annalisa Cattani
5 gennaio 2013 dalle ore 17 - Centro d'arte Novella Guerra
Fino al 3 febbraio - per appuntamento 335 6648415

Sabato 5 gennaio dalle ore 17 negli spazi di Novella Guerra Enrico Morsiani presenta un nuovo progetto cantautoriale che continua una specifica modalità di lavoro sviluppata nel corso degli ultimi dodici anni. Il titolo del progetto è Under the shower e presenta brani originali totalmente improvvisati e accompagnati dalla chitarra di Cristian Naldi (chitarrista professionista impegnato anche in progetti musicali su scala nazionali con i Fulkanelli). Durante la serata Enrico Morsiani presenterà alcune riflessioni rispetto la sua recente residenza a New York City durante l'arrivo dell'uragano Sandy. L'arrivo improvviso dell'uragano, oltre a influenzare i temi dei brani che verranno proposti, verrà messo in relazione al rapporto che esiste tra dimensione locale e dimensione globale.


Il critico e curatore Massimo Marchetti, invece, ci presenterà una serie di video da lui commentati, invitando i partecipanti ad uno scambio di idee.



NON HO NIENTE DA AGGIUNGERE, INoltre…

Chiara Pergola, Dragoni Russo - a cura di Annalisa Cattani

11 novembre 2012 dalle ore 16 - Centro d'arte Novella Guerra
Fino al 1 dicembre - per appuntamento 335 6648415

Questo nuovo incontro a Novella Guerra ci dà l’occasione di festeggiare San Martino con “in vino veritas” prodotto dalla casa e al contempo di abitare due nuovi progetti site specific della coppia Dragoni Russo e di Chiara Pergola.

Dragoni Russo con INoltre occupano con strati di tappeti lo spazio espositivo, nascondendo, o meglio, immergendo nelle pieghe della stoffa oggetti di uso quotidiano reperiti all’interno della casa. Il risultato sono protuberanze al limite tra l’ostacolo e l’occultamento dell’ultimo minuto, che fanno del pavimento una piattaforma onirica e instabile invitando gli intervenuti a sostare in una sorta di dialogo lunare. I tappeti diventano infatti luogo della convivialità e anche della stratificazione dei ricordi, tra oblio e recupero.

Chiara Pergola ha avuto modo di creare, nel corso di una residenza intensiva all'interno dello spazio, un ambizioso e articolato progetto dal titolo Non ho niente da aggiungere: un attraversamento dei capolavori indiscussi dell'arte occidentale paradossalmente associati all’infinita galleria di oggetti d’affezione trovati sul posto. «È sufficiente affacciarsi ad uno qualsiasi degli ambienti di questa singolare dimora, per comprendere a colpo d'occhio come le possibilità di ricombinazione, mutua suggestione e "mise-en-scène" siano virtualmente infinite, tanto che la natura del luogo può a buon diritto definirsi totipotente. La rassegna che viene proposta ai visitatori, di conseguenza, non ha alcuna pretesa di essere univoca nè completa: ben comprensibili esigenze di carattere temporale hanno impedito di estendere al di là di un certo limite il numero degli esempi. D'altra parte, anche la più ampia delle scelte - antologica o di "museo immaginario" - comporta inevitabilmente dei sacrifici e delle esclusioni, non potendo pertanto sottrarsi al rischio di arbitrarietà e di soggettivismo. Sono comunque stati adottati alcuni "criteri guida", come quello di una equilibrata scansione degli spazi, sempre entro i confini di quelli dedicati ai momenti di convivialità al piano terra; a questa regola si è derogato solo per cenni ed allusioni alla zona del seminterrato (n. 37, Alchimia), che potranno essere colti dai più temerari che oseranno introdurvisi».

http://novellaguerra.blogspot.it

Something might change a little


Emilio Fantin, Stefano Pasquini, Fabrizio Rivola, a cura di Annalisa Cattani

Emilio Fantin, Stefano Pasquini e Fabrizio Rivola, saranno i protagonisti il giorno 30 settembre del nuovo evento a Novella Guerra, centro d’arte e residenze all’insegna dell’incontro e della condivisione di problematiche legate alla cultura e all’arte contemporanea.

Il filo conduttore di questo evento partecipato sarà quello del micro-cambiamento e della autosostenibilità, valore cardine di Novella Guerra. Emilio Fantin propone una serie di lavori attraverso cui discutere il proprio percorso e un happening che proporrà una “vendemmia artistica”, trasformando il vigneto in luogo di riscoperta alchemico e relazionale. Tutti i partecipati verranno invitati a prendere parte alla vendemmia e alla produzione del mosto, da cui partirà un processo che andrà a concludersi nel corso dell’anno. Stefano Pasquini invece propone una performance dal titolo UA1202 di pubblica denuncia che comincia con le seguenti parole: “L’Italia è messa male, il mondo dell’arte ne riflette la sua politica e la sua stagnazione”, e continua per i presenti invitandoli ad un gesto di comune presa di coscienza. Fabrizio Rivola invece colloca come site specific permanente a Novella Guerra una piattaforma petrolifera realizzata in legno e vimini assieme agli artigiani del ravennate che ancora possiedono quest’arte, realizzando un ossimoro visivo che si fa domanda di fonti energetiche alternative. Al contempo questo lavoro nato come site specific temporaneao trova una collocazione permanente e si fa messaggio della necessità di indici fissi di dibattito su di un territorio dialettico.

La giornata si apre per tutti con la vendemmia alle h 15
a partire dalle 19 ad oltranza celebrazione del compleanno di Tony Cioli Puviani e di Giorgia Passini
ore 20 performance di Emilio Fantin con Alma Fantin al violoncello, che coinvolgerà il pubblico in una suggestiva pigiatura dell'uva

Inaugurazione dalle h 16 ad oltranza.

your LAST work














Sara Benaglia / Valentina Brenna / Curandi-Katz / Ozan Emre Han / Gabriele Garavaglia / Alia Scalvini / Emanuele Serafini / Marcello Spada

a cura di darth

Casabianca
Zola Predosa, via Pepoli 12
fino al 15 luglio - su appuntamento 338 3751951
"Se non c’è un committente non è che mi metto a produrre nuove opere. E ora ho deciso di smettere. Dopo il Guggenheim voglio prendere una pausa, che da come la vedo è definitiva. Per quanto tempo dobbiamo dimostrare chi siamo? Personalmente so già chi sono cosa sono in grado di fare e cosa no. Magari adesso potrei cominciare a fare il pittore. Non so disegnare, ma posso far dipingere qualcun altro. Del resto il più bravo scalatore del mondo è senza una gamba."
Maurizio Cattelan (Io Donna del 15/10/2011)

La mostra che conclude la stagione di Casabianca è dedicata al tema dell'epilogo. Ma nell’epilogo può rivelarsi il prologo di una nuova esperienza. Darth ha proposto a otto giovani artisti che si trovano all’inizio della propria carriera di produrre un loro "ultimo lavoro", cercando di innescare un meccanismo in cui ciò che è naturalmente ultimo nell’ordine dei pensieri diventi improvvisamente il primo. La questione dell’“ultimo lavoro” invita a letture diverse: un’opera definitiva in cui si condensano gli elementi imprescindibili di una ricerca, oppure l’occasione in cui sperimentare con l’immaginazione ipotetici cambiamenti di percorso. Ma “ultimo” è un aggettivo che può evocare anche la dimensione collettiva, quando le condizioni generali potrebbero essere radicalmente diverse. Per questo motivo, alla base di tutto ciò c’è una considerazione: l’attività artistica malgrado tutto tende a essere vissuta da chi la svolge come un lavoro “ultimo” dal punto di vista gerarchico, dopo la serie di impegni indispensabili alla sussistenza. Svolgere una riflessione sulla fase conclusiva della propria carriera significa interrogare indirettamente il problema della sostenibilità della professione artistica nel lungo periodo e aprire a questioni più generali: il proposito è di parlare della fine senza essere finali. Nella citazione di Cattelan siamo invitati a riflettere sulle condizioni di ricezione dell’opera contemporanea, che è sostanzialmente a tempo determinato. Superato un concetto idealistico dell’arte, siamo più che consapevoli che artisti non lo si è per destino ma per scelta. Annullata l’esigenza della lunga durata in favore dell’hic et nunc, non ci si rapporta più con l’eternità, con una permanenza oltre se stessi. Se l’artista pretende di avere un ruolo in un sistema di relazioni calibrato su questi parametri può sentirsi provvisorio, e il concetto di ultimo sottolinea appunto la dimensione di provvisorietà in cui viviamo.
Cuccia di Cattedra a rotelle